Fonte Press-In - COGOLLO DEL CENGIO. Brutta bestia il destino. Un giorno hai il mondo in mano, costruisci sogni e ruggisci come un leone. E il giorno dopo ti ritrovi a terra, le mani fra i capelli e lo stomaco rivoltato. Romano Borgo il conto lo ha pagato sulla sua pelle. Lui che con due lauree voleva fare il commercialista, aveva pensato ad uno studio tutto suo e sorrideva già al pensiero dei milioni (di lire) che avrebbe potuto guadagnare nell'Italia a trazione Dc. La sua vita invece è stata segnata dalla nascita di due figli con disabilità, a due anni di distanza l'uno dall'altro. Fine dei sogni. Crollo di molte certezze e strada improvvisamente in salita. E che salita. Si chiama destino.

Eppure, nonostante il buio pesto, si è accesa una luce in Borgo.

«Non volevo più fare il commercialista. Ho deciso che avrei dedicato la mia vita non solo ai miei figli, ma alle persone con disabilità».


E a 78 anni Romano può dire di aver mantenuto quell'impegno, assieme alla sua compagna di vita, la moglie Marcella Zordan, apprezzata scrittrice che ha raccontato la sua esperienza di mamma "speciale" in un libro. È così che inizia questa storia intrisa di dolorosa ma straordinaria umanità. Raccontata davanti ad un caffè fumante nella casa immersa nel verde di Cogollo del Cengio.

«La mia vita è completamente cambiata subito dopo essermi sposato, un anno dopo circa, quando è nato Nicola. Nicola era un bellissimo bambino, ma durante il parto il cordone ombelicale gli si era stretto al collo e il parto fu complicato. Accaddero le cose più assurde quella volta perché si sommarono problemi su problemi; ad esempio si ruppe l'incubatrice e il bambino ebbe un ulteriore trauma respiratorio. In più, sempre per colpa dell'incubatrice, riportò delle piccole ustioni ai piedi».

E le conseguenze quali furono?

Che nostro figlio riportò danni gravissimi che lo hanno segnato per tutta la vita. Allora dicevano che era uno spastico, era normale chiamarli così questi ragazzi. E se ci penso, se penso a come ci eravamo preparati all'arrivo del bimbo realizzo che il destino è stato ancora più beffardo.

Perché?

Perché io e mia moglie, prima del parto, avevamo fatto tutta una serie di esami che a quel tempo quasi nessuno faceva. Volevamo capire se potevano esserci incompatibilità o problemi che potessero rivelarsi pericolosi per il
nascituro. Invece era tutto a posto, nessuna controindicazione per il parto. Insomma, eravamo sereni. Non avremmo mai immaginato che sarebbe stato un incidente e non una questione genetica a cambiare la nostra
vita.

Quando avete capito che vostro figlio non avrebbe più potuto fare una vita normale?

Verso i 5-6 mesi di vita ci vennero i primi dubbi nonostante i medici ci avessero detto che c'erano speranze di recupero e che dovevamo stare tranquilli. Ah, i medici...

Ce l'ha con loro?

Mi rifaccia la domanda dopo. Tornando a nostro figlio, ci accorgemmo che non era in grado di reggere il capo e quindi abbiamo compreso che la situazione era grave. Eppure non ci siamo rassegnati, abbiamo combattuto sempre, pensavamo alla riabilitazione. Allora ho cominciato a frequentare l'AIAS di Valdagno, facevamo 50 chilometri ma era l'unico centro dove si poteva avere assistenza perché di fatto era nato dai genitori. Pagavamo noi le fisioterapiste e non esistevano pulmini, allora non c'era la sensibilità che c'è oggi nei confronti della disabilità. Quelli che la società definiva spastici, e lì ci metteva dentro di tutto, venivano portati in istituti tipo il Nordera di Thiene. Lì ci finivano anche ragazzi che magari avevano dei leggeri ritardi mentali, o semplicemente anche bambini che non potevano avere l'assistenza dei genitori. Ma in quei posti perdevano il contatto con la realtà e finivano con il diventare davvero soggetti "handicappati", mi passi il termine.

A un certo punto lei capì che doveva fare qualcosa di importante.

Mi stavo già dannando l'anima per cercare di far comprendere alle istituzioni e ai medici, che hanno una visione spesso troppo "clinico-centrica", quanto fosse importante il problema delle persone con disabilità. Parlavo con altri genitori, ci trovavamo all'AIAS, cercavamo di fare squadra. Ma non immaginavo ancora quello che mi sarebbe capitato di lì a poco.

Cosa accadde?

Nel 1972 nacque Alberto. Eravamo felicissimi, anche in questo caso avevamo avuto tutte le rassicurazioni del caso dai dottori. Ma piano piano ci accorgemmo che ci seguiva poco, che aveva poco equilibrio e non parlava. Confesso che fu una mazzata, ma non ci perdemmo d'animo. E lì cambiò radicalmente la mia vita. Decisi che mi sarei, che ci saremmo, io e mia moglie, dedicati ai nostri due figli e non solo. Io a quel tempo ero caporeparto alla Lanerossi e pensai di mollare. Avevo in mano una laurea breve in statistica ottenuta mentre lavoravo e mi convinsi che la cosa migliore era andare ad insegnare. Andai a fare il supplente per avere più tempo da passare con Alberto e Nicola. In azienda prendevo 250 mila lire al mese, per stare in cattedra ne prendevo 80 mila, in più subito non mi fu riconosciuto il TFR perché non avevo dato il preavviso necessario. Mi ricordo che per riuscire a portare Nicola a fare ginnastica a Valdagno dormivo 2 o 3 ore a notte. Perdevo continuamente peso, passai da 80 a 56 chili in breve tempo. Però quello che mi interessava era poter seguire i miei figli, ma soprattutto creare una rete di genitori che potesse aiutarsi e far sentire la sua voce, farla arrivare alle istituzioni. Nel frattempo presi anche la seconda laurea. Avrei potuto fare il commercialista, ma non me la sono sentita.

E così entrò anche nell'Anffas, dove è stato presidente.

Certo. Ma non volevo che tutto si riducesse ad un centro dove si lasciavano i ragazzi come si lascia un abito nel guardaroba. E allora con i genitori organizzavamo la fisioterapia, cercavamo di coinvolgere i nostri figli in varie attività. Mi ricordo di un ragazzo che aveva problemi simili a quelli di Nicola e come Nicola era dotato intellettualmente, gli mancava la possibilità di comunicare. Quindi ci inventammo il primo rudimentale "computer", che computer non era ma per quei tempi era un importante strumento di comunicazione. Prendemmo una macchina da scrivere, poi con l'aiuto di alcuni amici fabbricammo un telaio forato da mettere in corrispondenza dei vari tasti e alla fine costruimmo un caschetto dotato di spuntone. Con quell'affare i ragazzi riuscivano a battere a macchina con il capo e comunicavamo. Ho conservato tutto, per fortuna ho una casa grande. Se avessi fatto il commercialista avrei il mio studio arredato per bene, invece ora è un deposito pieno di cose che usiamo per i nostri figli, comprese le carrozzine.

E questo le pesa?

Scherza? Ho passato una vita a prendermi cura dei miei figli, la mia casa è stata modificata per loro. Rifarei tutto, loro hanno impreziosito la mia vita, che potrebbe essere stata grigia come quella di un commercialista.
Lei ha fatto tanto anche per inserire le persone con disabilità nelle scuole quando ancora la figura dell'insegnante di sostegno non esisteva. Ho combattuto anche su questo campo perché mi accorgevo che quando i ragazzi venivano lasciati nei centri per "spastici" erano abbandonati. Spesso la percentuale di operatori rispetto al numero di ospiti era inferiore alla soglia minima e quindi, venendo meno la possibilità di seguire i ragazzi con l'adeguata attenzione, finiva che quelli in carrozzina venivano parcheggiati in una stanza o al parco e lasciati là. Perché erano anche quelli più innocui, mentre il poco personale doveva seguire quelli più agitati.

E quindi pensò che la scuola poteva essere un buon modo per togliere  le persone con disabilità dall'isolamento. Ma a quei tempi la scuola "normale" non aveva percorsi specifici.

No, anche se dopo qualche anno iniziarono a lavorare i primi insegnanti di sostegno. Mi ricordo che andai più volte a parlare con il sindaco di Santorso, Giuseppe Doppio, che poi diventò senatore. Era una persona a modo,
sensibile. Non era come certi sindaci di adesso, più attenti alle rotonde e alle sagre che ai problemi delle persone. Gli chiesi se sua moglie, che era insegnante, poteva prendersi carico di qualche ragazzo, ma lui mi spiegò che insegnava già in terza e non in prima. Io non mi arresi e grazie a Doppio trovai un'altra maestra. Ricordo che caricai mio figlio nella vecchia Giulia, allora non c'erano seggiolini e lui non avendo il controllo dell'articolazione non poteva stare seduto. Quindi abbassavo completamente il sedile, lo distendevo e poi allacciavo la cintura. Arrivammo dalla maestra e mi ricordo che mi disse che non se la sentiva. Ci rimasi male, ma poi accadde qualcosa di meraviglioso.

Cosa accadde?

Avevo Nicola in braccio, gli tenevo la testa perché non si reggeva e lui incrociò gli occhi di quella signora e le sorrise (ora Romano si commuove). Allora la maestra mi disse: "si comincia lunedì". Con Andrea non fu facile a scuola, ricordo l'insegnante di religione che per tutti i cinque anni sulla sua scheda scrisse "inqualificabile". E per fortuna insegnava religione.

Ma torniamo ai medici. Perché tanta diffidenza?

Ma no, ci mancherebbe. Nessuna diffidenza, guai se non ci fossero i medici e la medicina, ovvio. È un certo atteggiamento che mi disturba.

E quale? Cosa le hanno fatto?

Nella mia esperienza ho trovato spesso medici che riducevano tutto al dato clinico, scientifico, dimenticando quello umano. Non esistono solo medicine, studi, accertamenti diagnostici, c'è anche l'anima. Quando si parla con un genitore di un ragazzo con disabilità questo aspetto non può essere dimenticato.

Lei è stato vice sindaco, assessore, consigliere di minoranza. Trent'anni in amministrazione comunale a Cogollo, ma anche rappresentante dei vecchi comitati di gestione delle Ulss. Che rapporto ha avuto con le istituzioni?

Le istituzioni sono fatte da persone e in più sono sommerse dalla burocrazia. Chi non vive il problema direttamente fatica a comprenderne la portata. Io stesso, se non avessi avuto due figli con disabilità non avrei dedicato la mia vita a loro e alla disabilità in generale. Un giorno ad una assemblea dei sindaci uno di loro mi disse che doveva investire una bella cifra per la caserma dei carabinieri. Io dissi che sarebbe stato meglio spendere quei soldi per un centro per persone con disabilità, ma non venni capito. Due anni dopo il figlio di quel sindaco fece un incidente che lo rese invalido e a quel punto il padre venne da me chiedendomi consigli. Allora mi diede ragione a proposito della mia richiesta sulla struttura per persone con disabilità.

Cosa chiede alle istituzioni?

Di essere vicine alle famiglie. Non bastano le soluzioni economiche. Lo so che è più comodo dare un contributo più sostanzioso alle famiglie con persone con disabilità a carico, ma spesso queste persone hanno bisogno di essere seguite, di avere strutture all'altezza, persone all'altezza. Grazie al cielo sono arrivate le badanti che lavorano anche il avere strutture all'altezza, persone all'altezza. Grazie al cielo sono arrivate le badanti che lavorano anche il sabato e la domenica. I centri diurni non risolvono i problemi. I ragazzi passano molto tempo a casa, i miei arrivano alle 15 e da allora tocca a noi genitori. Come tocca a noi seguirli nel fine settimana. Spesso questi ragazzi devono essere spostati a forza, lavati, vestiti e queste sono operazioni impossibili da fare se non c'è un supporto. Le badanti, quelle straniere, diventano preziose, perché gli italiani che fanno questo lavoro non si trovano.

Cosa pensa del suicidio assistito?

Che una persona deve avere la possibilità di decidere il suo destino, ma le istituzioni hanno il dovere di fare il massimo perché questa persona viva dignitosamente e sia seguita con il massimo delle attenzioni fino alla fine dei suoi giorni.